Venerdì, 26 Aprile 2024

Alla ricerca dell’olio perfetto: combinare extravergini di varietà differenti per ottenere un olio eccellente con l’arte del blending

La crescente attenzione verso una sana alimentazione sta gradualmente portando i consumatori verso il consumo dell’olio da olive di cui l’Extravergine

è la massima espressione. Sono sempre più numerose, infatti, le scoperte della ricerca medica che esaltano le caratteristiche salutistiche e le proprietà nutraceutiche e preventive di molte malattie - cardiovascolari e neoplastiche in primis – dell’extravergine nonché i benefici che si acquisiscono inserendo nella propria dieta due cucchiai, ogni giorno, di oli extravergini di oliva amari e piccanti. Perché – anche se spesso chi consuma olio è portato a scartarli considerandoli erroneamente difetti – le note di piccante e di amaro più o meno spiccate – pregi per gli assaggiatori professionisti – sono date dai polifenoli, proprio le molecole che hanno impatti positivi sulla salute, responsabili anche delle suddette proprietà gustative.
Premesso dunque che l’extravergine fa bene, occorre sottolineare che non tutti gli oli extravergini sono uguali e l’estrema varietà del patrimonio olivicolo italiano, caratterizzato da cultivar da cui è possibile estrarre oli tipici e unici perché collegati al proprio ambiente di coltivazione e al territorio, offre ai consumatori una ampia scelta che possa soddisfare i propri gusti o che meglio esalti il sapore dei cibi.
Sta all’azienda produttrice trovare le soluzioni che possano soddisfare le esigenze dei mercati e ottenere riscontri economici apprezzabili. Vi sono aziende che producono solo oli monocultivar - ottenuti da olive di una sola varietà con caratteristiche e sensazioni organolettiche del territorio in cui vengono coltivate, come nel caso dei nostri uliveti, da secoli.
Nella provincia reggina, c’è la tendenza a produrre oli monovarietali: nell’areale jonico si produce quasi esclusivamente olio da “geracese”; nella piana di Gioia Tauro è prevalente il monovarietale di ottobratica o al massimo un blend tra ottobratica e sinopolese.
In questi casi, il particolare appeal che presentano le cultivar e i risultati positivi che possono riscontrarsi commercialmente, consentono al produttore di ottenere un prodotto molto caratterizzato ma comunque apprezzato dal consumatore
I blend di extravergini sono invece espressione del mercato e di una ricerca continua - che le aziende richiedono ad esperti - per poter meglio rispondere al gusto dei propri consumatori.
L’olio ‘perfetto’– che meglio si adatta al palato di chi lo consuma– si può ottenere con il blending, ovvero la combinazione - fatta da un blender - di oli extravergini estratti dalle stesse o da diverse cultivar, che compensano a vicenda le caratteristiche positive di amaro e piccante, per ottenere un prodotto finale superiore e diverso rispetto agli extravergini di partenza.
Anche se la traduzione italiana – miscela o accozzaglia, forse per questo gli spagnoli preferiscono utilizzare la parola francese couplage – si collega a qualcosa di brutto, i blend rappresentano un’opportunità per le aziende olivicole per avere più chance di vendita dei loro oli che saranno più armonici e rotondi e, pertanto, capaci di accontentare richieste diverse, da non confondere con i miscugli industriali che spesso si trovano, a basso costo, negli scaffali dei supermercati.
Sono diverse le motivazioni che spingono le aziende a ricorrere al blend.
La prima è senza dubbio quella di riproporre un olio che si ricolleghi all’azienda che lo produce.
«Normalmente le società che hanno una riconoscibilità sul mercato ed una certa categoria di prodotto –riferisce Antonio Lauro, agronomo Capo Panel e presidente del Concorso Internazionale EVO IOOC - cercano di riprodurre anno dopo anno ciò che la natura non standardizza mai. Per la stessa azienda le olive raccolte a ottobre e poi a dicembre danno due oli completamente differenti. Occorre pertanto standardizzare le produzioni, eliminando le partite che non sono di qualità, cercando di ricreare di anno in anno, quello che il consumatore mediamente percepisce come olio della tua azienda». È indispensabile - sottolinea il blender – che il blend sia fatto da un gruppo ristretto di assaggiatori di olio da olive, con solide basi di analisi sensoriale che tracci i profili degli oli, trovando la giusta percentuale tra di essi da rapportare a 100 «per avvicinarsi, attraverso le schede storiche dell’azienda– perché riprodurlo esattamente non è possibile – verosimilmente al profilo tipico dell’azienda».
Un secondo motivo si ricollega alla volontà di creare un prodotto nuovo, mettendo insieme due o più varietà differenti, che possa sorprendere il consumatore per qualità.
«Si tratta – prosegue Lauro – del blend “su richiesta”, cioè un prodotto originale e ‘su misura’ che in genere molti chef o ristoranti chiedono per la propria cucina e che imbottiglieranno e venderanno con il loro nome e la propria immagine».
Spesso si ricorre al blending per correggere caratteristiche tipiche di alcune cultivar o per correggere lievi difetti sensoriali o modificarne la composizione chimica qualora qualche parametro possa mettere fuori norma un olio comunque eccellente sotto il profilo qualitativo - come è stato il caso, qualche anno fa di alcune partite di olio di carolea che presentavano valori di acido eptadecenoico ed esenoico fuori legge fino a quando la norma europea non è stata modificata.
«Le miscele nascono dalla necessità dell’azienda – continua il dott. Lauro -di attenuare alcuni attributi positivi come l’amaro e il piccante che il consumatore poco esperto non apprezza. Nella provincia reggina, ad esempio, mescolando ogni anno in proporzioni differenti, ma più o meno a metà, ottobratica e carolea, viene un olio che è molto apprezzato dal mercato. Per correggere un’impronta varietale molto marcata, come la coratina italiana che ha 8-9 di amaro e piccante, si ricorre al blend per rendere un olio più morbido per il mercato, ad esempio del nord Italia. Si fanno, poi blend intra-varietali per compensare e completare il profilo aromatico di quella specifica varietà perché, come già detto in precedenza, oli ottenuti da olive raccolte in periodi diversi non sono gli stessi così come ci sono delle varietà che naturalmente sono ‘scariche’ ma che accompagnate ad altre danno luogo ad un olio equilibrato- .
Senza dimenticare che anche DOP e IGP sono dei blend perché i rispettivi disciplinari di produzione consentono percentuali di olivaggio – che si fa in campo – di diverse varietà.
«Pensiamo ad esempio al disciplinare della DOP Bruzio-Sibaritide che ammette la varietà prevalente nella zona – la Roggianella - massimo al 30% oppure alla necessaria presenza della Nocellara Messinese per impollinare la Carolea, cultivar indispensabile in percentuale per il disciplinare IGP “Olio di Calabria” .
Anche nei concorsi internazionali gli extravergini più alti in classifica sono quelli ottenuti da blend più che da monovarietali. Nel mio concorso - EVO International Olive Oil Contest, in programma dal 14 al 19 maggio 2018 a Capaccio Paestum –sono 10 le categorie in palio e tra queste vi è anche il “miglior blend”. Dieci categorie per i migliori produttori, nel mondo, di extravergine. Perché oramai per chi produce oli di qualità, la richiesta è quella di fare oli “best in class” per vincere concorsi e aggiudicarsi le preferenze dei consumatori » - conclude Lauro.
Che sia monocultivar o blend è indispensabile che gli extravergini siano prodotti rispettando correttamente tutte le fasi della lunga catena della filiera olivicola che porta dal campo alla bottiglia: solo in tal caso si potrà parlare di oli di alta qualità in grado di farsi “gustare” da quelli che sono i migliori alleati dei nostri olivicoltori, i consumatori consapevoli e informati.