“Chi sono? Che faccio? Io suono”. Tutto suona, il corpo, gli oggetti, gli spazi. Io suono quindi sono, e viceversa. Nasce da qui Yosonu, il progetto solista di Peppe “drumz” Costa, eclettico musicista calabrese dotato di grande intelligenza creativa e curiosità vorace.
“One man orchestra”, compositore e polistrumentista che fa musica contemporanea senza strumenti - o meglio, senza strumenti convenzionali - e senza (troppe) parole. Al centro il timbro, il ritmo desemantizzato, il suono. Un universo sonoro nato dalla connessione tra il corpo – inteso come body percussion -, gli oggetti quotidiani e la voce. Bacinelle, tubi, lastre di metallo, piccoli elettrodomestici o un termosifone. Oggetti a costo zero, talvolta dimenticati, trovati in casa o in giro per le città, divengono inaspettati strumenti ritmici, oltrepassando la loro destinazione d'uso ed il loro suono naturale per farsi altro, per nuove interpretazioni. Da tanti anni vive a Reggio, sua città di adozione, da quando ha lasciato Monsoreto di Dinami, in provincia di Vibo Valentia, per frequentare la facoltà di architettura. Ha smesso di dire “sono un architetto” per un percorso fatto di musica e che abbraccia anche la didattica ed i laboratori di propedeutica musicale per bambini (questi ultimi nati parallelamente al suo percorso di studi della linea pedagogica Orff a Roma). Dopo aver suonato per anni la batteria in diverse formazioni, di generi molto differenti, ha cominciato a sentire l'esigenza di avviare un nuovo progetto sperimentale da solista e senza strumenti tradizionali. Due dischi all'attivo: “GiùBOX”, registrato “tra l’armadio ed il salone di casa”, uscito per CNI Unite e con patrocinio di Legambiente per l'attenzione al tema del riuso e riciclo di materiali; ed “Happy Loser”, un disco di “andata e ritorno”, incentrato sul tema della sconfitta, per cui Yosonu suggerisce di ascoltarlo sia dalla prima all'ultima traccia che al contrario. Quasi 300 concerti in 4 anni, migliaia di chilometri percorsi in 10 tour e opening act per Alborosie, Uzeda, Afterhours, Gogol Bordello, Wrongonyou e altri.
Per conoscere meglio il suo universo sonoro, lo abbiamo intervistato.
Come nasce il tuo progetto solista?
Yosonu nasce nel marzo 2015 con la prima uscita discografica “GiùBOX”, preceduta da due videoclip: il primo “The Deep” caricato liberamente su Youtube ed il secondo realizzato nell'ambito del docu-film “Reaction City”. Nel primo suonavo corpo e voce, nel secondo parti della città di Reggio Calabria. Da questi due brani, antitetici per strumentazione, mi è venuto in mente di avviare un nuovo progetto. “GiùBOX” è uscito in una prima tiratura limitata, anche la confezione è stata interamente progettata e costruita manualmente. A questo disco sono seguiti 150 concerti in 2 anni all'interno di vari festival di busking, nei clubs e nei teatri.
Happy Loser è il tuo ultimo disco, uscito nel 2017. Come nasce ed in cosa si differenzia dal precedente?
Il disco è stato preceduto dalla ristampa di “GiùBOX”. In questo nuovo lavoro il suono si fa più scuro e industriale, tanto che alcune registrazioni sono state fatte in un oleificio in Sicilia, su grandi silos e placche di metallo, sfruttando il riverbero naturale dello spazio. All'interno del disco ho ospitato due grandi musicisti, molto importanti per la mia formazione: Paolo Tofani, chitarra storica degli Area e ricercatore instancabile e John Egan, flautista degli inglesi Ozric Tentacles, band psichedelica fantastica, e dei Dream Machine. Per entrambi i dischi ho realizzato molti videoclip e anche ad “Happy Loser” sono seguiti 150 concerti. Ho battuto tanto il ferro del live, una dimensione che mi appassiona molto ed in cui faccio improvvisazione pura. Sono stato molto in giro, ho partecipato anche a qualche grande festival ed ho suonato a Londra.
Nell'ultimo periodo hai portato in giro per l'Italia la sonorizzazione dal vivo di “Wall-E”, tra i capolavori dell'animazione Pixar/Disney. Come si sviluppa questo progetto?
Il tour si è concluso qualche giorno fa e mi ha portato ad esplorare un territorio nuovo con ottimi riscontri di pubblico e tra gli addetti ai lavori. In tanti lo avevano già fatto prima di me con film vecchi, penso agli Ovo con la sonorizzazione di “Frankenstein”. A me interessava, invece, l'idea di prendere un film abbastanza moderno e di apportare una correzione al colore e alla storia. Così ho scelto “Wall-E”, la storia di un robottino ecologista e solitario che si muove in un futuro distopico in cui gli esseri umani hanno abbandonato la terra. Lui resta acceso a ripulirla. La cosa che ci accomuna è la passione per l'oggetto, non per il suo design o per il valore economico che può avere. A me per le sue proprietà timbriche, a lui perché sono oggetti curiosi che lo divertono e fanno parte di archivio di oggetti che gli esseri umani hanno creato senza curarsene.
Stai lavorando a qualche nuovo progetto?
Sto lavorando al nuovo disco, che uscirà a novembre. Le sonorità stanno cambiando, detesto l'idea di restare statico su una proposta, anche se ha funzionato. Già tra i primi due dischi c'è una profonda differenza e dopo tutti i live di questi anni credo che sia normale applicare una virata sul suono. Tra le novità c'è la presenza di testi, al momento ho composto tre brani che li contengono. Saranno presenti inoltre delle collaborazioni ed ho già inserito qualche strumento musicale, non particolarmente diffuso. Ho arricchito poi la gamma timbrica scegliendo piccoli oggetti musicali, ho innovato il parco macchine ed inserito delle batterie elettroniche suonate. Finalmente sento di poter unire la ricerca sulle percussioni informali ai 20 anni da batterista che ho alle spalle per portare il progetto ad un livello altro. Le ritmiche saranno più elaborate, ovviamente, rispetto a ciò che potevo fare con i soli oggetti. Il sound resterà piuttosto acido e in altre parti rarefatto e poco ritmico, questo perché ho sentito l'esigenza di uscire da una ritmica serrata per toccare territori più fluidi.
A proposito di voce e parola, in entrambi i dischi si avverte come la voce, spogliata dal suo ruolo semantico, venga utilizzata per le sue proprietà ritmiche. Ci spieghi i motivi di questa scelta?
Sin da subito ho iniziato a non utilizzare la voce con proprietà semantiche. Non avevo mai scritto e non volevo dire nulla. Il mio unico obiettivo era il suono. In alcune tracce ho utilizzato filastrocche o mantra solo per una questione ritmica. Il primo disco, per esempio, parte con “Lesson N.1” in cui ripeto la tipica frase da lezione d'inglese “the pen is on the table”, un gioco per far suonare anglofono un brano. Nel secondo, invece, sono presenti piccole frasi nel brano “Ere nere”, le ripeto ossessivamente senza fornire altri elementi per costruire una storia, in modo che ognuno possa fare la propria riflessione. Ho deciso di scrivere dei testi nel nuovo disco perché nell'ultimo anno, visti gli accadimenti in giro per il mondo, nei concerti mi è capitato spesso di non riuscire ad ignorare il fatto che mentre noi stavamo per divertirci poco prima avevo letto una notizia poco felice. Non è possibile pensare alla musica come solo intrattenimento. Sentivo il bisogno di porre un filtro e prendere un istante di tempo durante il live per ricordare a me stesso e agli altri che accadono cose che ci devono portare ad essere attivi e critici nel pensiero. Scrivere dei testi è anche un atto catartico: l'esigenza di mettere nero su bianco un pensiero e metterlo in musica è un modo per continuare ad occuparsi della questione.
Da anni sei impegnato nella realizzazione di laboratori di propedeutica musicale e body percussion per bambini e adulti. Ci racconteresti di queste esperienze? Influenzano in qualche modo il tuo suono?
Al momento ho attivi diversi corsi di body percussion, con classi di aduli tra Reggio Calabria, Catania e Avellino. A Reggio lavoro da 4 anni in una struttura che si occupa di percorsi di terapia per minori ed in un centro diurno per ragazzi seguiti dai servizi sociali. Collaboro anche con diversi teatri per provare ad inserire parti ritmiche in spettacoli per bambini. I ragazzi mi insegnano molto, anche se appartengono a tre generazioni più in là rispetto a me. Non sanno cose sia un cd e ascoltano musica con una fruizione velocissima. La mia generazione, invece, aveva dei limiti, non solo economici, a reperire il materiale da ascoltare, quindi avevamo gusti ben definiti. Oggi la fruizione di musica è molto più facile. Nel mio percorso incontro poi ragazzi con sensibilità particolari che fanno terapie, loro hanno una grande capacità di utilizzare il fantastico, diversa da altri bambini. Sul versante musicale, le idee dei ragazzini possono anche essere molto interessanti. Per alcuni è difficile abbandonare ciò che conoscono e fare proposte diverse dalle hits estive che ascoltano, ma ci sono anche alcuni piccoli personaggi che escono dal coro, che magari non conoscono un repertorio e lanciano proposte più libere da cui si potrebbe rubare tantissimo.
Hai ormai messo da parte il tuo lavoro di architetto, che connessioni ritrovi tra la tua musica e l'architettura?
Sono ancora innamoratissimo dell'architettura. Ci sono tante analogia con il suono. Il primo gancio è sempre ritmico: se immagino il prospetto di un edificio lo immagino con un ritmo serrato, in una visione ritmica dell'architettura. C'è poi un altro collegamento, più diretto, tra suono e architettura: il suono senza un'architettura non viene fuori. Penso ad un concerto in un deserto, sicuramente suggestivo, ma in un luogo che non ti rimanda un suono. Ancora oggi mi è rimasto il fascino del frammento di architettura che può suonare, così come suonare un oggetto di design. Mi affascinano molto gli ambienti sonori. Proprio qualche giorno fa ricordavo sulla mia pagina Facebook di un'esperienza al Museo Archeologico Nazionale di Reggio. Era il 2011 ed erano in corso i lavori di restauro. Per la prima volta mi sono trovato ad interagire e suonare all'interno di un spazio nato con una connotazione diversa. In quell'esperienza tutti i musicisti coinvolti suonarono dialogando col cantiere durante l'installazione dell'opera di Alfredo Pirri all'interno del museo. Suonammo due volte, nella fase di cantiere ed a cantieri finiti. Nel primo caso mi piaceva l'idea di provare a dialogare con i suoni che producevano gli operai. Nella seconda fase del progetto, quando la “Piazza” di Pirri fu terminata, ci fu chiesto di guardare l'opera e suonare: così ho provato a leggere lo spazio creandomi uno schema non troppo rigido. In quell'esperienza non avevamo un pubblico a cui rivolgersi, non c'era un fine estetico. Questo è molto vicino al mio modo di vivere la dimensione del concerto, non sublimando una cosa ma esplorandola.
Per concludere, qual è la cosa più strana che hai suonato?
Un cane di nome Tarzan a Matera – ride -, il vero proprietario di un locale in cui ho suonato. Durante la serata è stato tranquillo, ma quando si arrabbiava aveva un modo particolare di abbaiare. Cosi ho deciso di mettere dei distorsori ed ho filtrato il suo suono. Per quanto riguarda gli oggetti, credo il monta latte per il cappuccino, lo lascio sfregare sulla capsula del microfono.
Di seguito i link di due suoi brani