Era un torrido pomeriggio di luglio del 1919, quando il giovane arciprete della Cattedrale di Oppido Mamertina, don Giovanni Sposato, venne ucciso a colpi di fucile.
Un efferato delitto che dapprima sconvolse la cittadina ma sul quale ben presto calò un’ingiusta coltre di reticenza ed oblio. A distanza di 100 anni da quella triste vicenda, lo studioso Antonio Roselli ed il parroco della Parrocchia San Nicola di Oppido, don Letterio Festa, hanno deciso di riportare alla luce quel drammatico caso, pubblicando il libro “L’apostolo dell’Annunziata”. L’intento dei due autori, che si sono spesi in minuziose ricerche mossi dalla voglia di non relegare nell’oblio «la memoria e il ricorso di un parroco a cui tanto deve la vita religiosa della comunità cristiana oppidese e il popolare e vivissimo culto della Vergine annunciata dall’Angelo che la contraddistingue da secoli», è quello di raccontare finalmente la verità circa ciò che accadde realmente e che per tanti anni fu taciuto.
La vita
Giovanni Rosario Antonio Sposato nacque ad Oppido il 12 novembre del 1868, dal falegname Francesco Sposato e Mariantonia Spadaro. Entrò giovanissimo nel seminario vescovile di Oppido, iniziando i tre anni previsti per il noviziato nel 1884. Al termine dei tre anni prescritti per il noviziato, Giovanni Sposato fu ammesso alla Tonsura e ai primi Ordini minori dell’Ostiariato e del Lettorato, che ricevette il 26 marzo 1887. Il 22 marzo 1890 gli furono conferiti gli ultimi due Ordini minori dell’Esorcistato e dell’Accolitato. Fu ordinato suddiacono il 21 dicembre del 1890, diacono il 19 dicembre dell’anno successivo e sacerdote l’11 giugno del 1892. Divenne arciprete della Cattedrale di Oppido il 21 giugno del 1898, a soli 29 anni, tra le polemiche per la sua giovane età.
Già nel 1901, a pochi anni dalla nomina ad arciprete, don Sposato fece rifiorire il culto alla Vergine SS. Annunziata, che a suo dire si era affievolito forse a seguito dei disastri e dei disagi causati dal terremoto del 16 novembre del 1894. «Lo Sposato accolse il desiderio di tutti gli oppidesi – scrive don Letterio Festa nell’introduzione del libro – di vedere maggiormente esaltata la loro protettrice ed aperse le sue premurose iniziative nello spazio della devozione popolare. Richiamò le antiche memorie, fece leva sulle nostalgie dei primi emigrati, portò al capezzale degli infermi la nostra Madonna. Per diffondere la devozione dell’Annunziata, il canonico Sposato pubblicò, nel 1901, un testo dal titolo “Culto e grazie di Maria SS. Annunziata” allo scopo di svegliare e riaccendere gli animi. Egli si occupò della parte pastorale e devozionale mentre affidò al cavaliere Francesco Saverio Grillo la parte più propriamente storica».
L’oscuro dramma
Dopo l’introduzione sulla vita di don Giovanni Sposato, raccontata da don Letterio Festa, il libro entra nel vivo della tragica storia, grazie agli studi e alle ricerche condotti da Antonio Roselli. «I fiumi di parole che sono corsi sull’assassinio dell’arciprete Giovanni Sposato e le risultanze di un processo di cui è stato oggetto – scrive Roselli – non sono bastati a ricomporre con precisione le dinamiche della vicenda: troppi nodi irrisolti, troppe trame complesse hanno suggerito di stendere sull’episodio un velo di oblio». La tragica morte del prete, ebbe a che fare con il suo ufficio di direttore spirituale del sodalizio “Pia unione delle figlie di Maria”, che dal 1876 era rivolta all’educazione religiosa e morale delle sodali, ed al suo rapporto amicale che lo legavano ad una delle famiglie più in vista della borghesia oppidese, i Buda. Il cavaliere Luigi Buda, oriundo di Seminara, facoltoso possidente ed esattore delle imposte, era convolato a nozze nel 1895 con la 15enne oppidese Fortunata Morizzi, che da nubile aveva aderito alla Pia unione delle figlie di Maria. I Buda si erano stabiliti ad Oppido in un imponente palazzo posto lungo la via Francesco Maria Coppola. Dall’unione dei coniugi Buda e Morizzi, a cavallo dei due secoli, era nata una ricca prole alla quale era stata impartita un’educazione religiosa secondo i principi cattolici. L’amicizia tra l’arciprete Sposato e la famiglia Buda traeva origine da affinità religiose e di reciproca stima.

La primogenita Serafina frequentava regolarmente le funzioni organizzate dalle “Figlie di Maria” oltre a ricoprire un ruolo molto attivo all’interno del sodalizio, mentre il secondogenito Vincenzo, era figlioccio di cresima dell’arciprete. E fu proprio per mano di quest’ultimo che l’arciprete trovò la morte. A fare luce sull’intreccio di sangue era stato il processo penale celebrato dalla Corte di Appello di Catanzaro il 21 marzo del 1921. Dagli atti infatti, è emerso che il 19 luglio del 1919, don Sposato si era recato come di consueto, a casa dei Buda per confessare Serafina, degente a letto. Intorno alle 17.30 di quel sabato d’estate, proprio mentre il giovane arciprete amministrava il sacramento alla ragazza, venne raggiunto da due colpi di fucile esplosi da Vincenzo, rientrato in licenza dal servizio militare pochi giorni prima dell’accaduto. Il giovane da tempo sospettava che la sorella fosse in rapporti intimi con l’arciprete e per questo si macchiò del delitto. A far sorgere il dubbio nella mente del ragazzo, secondo quanto racconta Antonio Roselli, erano state le gravi insinuazioni raccolte da «informatori poco seri», e le infondate opinioni espresse dalla sorella Evelina, terzogenita di casa Buda, che aveva ricevuto un frammento di lettera poi smarrito, in cui si leggeva: «Fatemi sapere se siete ancora malata… che quando vengo dobbiamo fare il coito». Vincenzo pensò quindi di accertare personalmente la verità dei fatti nel momento in cui il prete fosse tornato per la confessione.
«Vidi mia sorella riversa sul letto con gli occhi semichiusi e il petto alquanto scoperto – confessò alcuni giorni dopo Vincenzo Buda – perché le coperte erano spostate in giù, mentre il prete stava vicino, fermo. Dopo pochi secondi il prete portò la mano destra sulla fronte di mia sorella e la sinistra sotto la testa di lei poscia portò la destra sulle parti genitali di lei, sulle coperte però, e si diede a dare numerosi colpi con le dita. Vedendo mia sorella scamiciata, il prete in quell’atteggiamento, e pensando alla parola “coito” che in quel momento rincorse alla mia memoria, perdetti la testa, non compresi più nulla… andai di corsa nella mia camera, presi il fucile, corsi verso la stanza del fatto, e giunto sulla porta, sparai due colpi in direzione del prete». Il sacerdote, ferito gravemente, non morì sul colpo, mentre Vincenzo si diede alla fuga nascondendosi poi nella dimora della signora Caterina Romeo, dove alloggiava lo zio Francesco Pandolfini. Il giovane si costituì però, quattro giorni dopo, dichiarando di aver compiuto quell’insano gesto per difendere l’onore della sua famiglia. Si aprì così un procedimento penale che portò al rinvio a giudizio di Vincenzo Buda alla Corte d’Assise di Reggio Calabria, per rispondere del delitto ma senza premeditazione.
Grazie alle testimonianze e agli elementi raccolti, «la Sezione d’Accusa della Corte d’Appello di Catanzaro – scrive Roselli nel suo libro – restituiva alla memoria dell’arciprete Giovanni Sposato, tanto vituperata dai suoi detrattori, il profondo rispetto e la riverenza meritati in vita a buon diritto», dal momento che dalle prove emerse (tra le quali lo scambio di lettere) venne assolutamente esclusa una relazione tra i due, facendo emergere invece la grande fede di Serafina ed il suo bisogno di confidare tutto al suo confessore.
La morte

Don Sposato non morì sul colpo, ma agonizzante venne trasportato all’ospedale civile di Oppido. Secondo quanto racconta Antonio Roselli, la ferita gli aveva procurato anche l’avulsione traumatica della guancia con copiosa emorragia esterna. Prima di esalare l’ultimo respiro, alle ore 18 del 21 luglio del 1919, l’arciprete perdonò il suo assassino. Alla notizia della sua morte, gli oppidesi che lo consideravano un santo, cercarono di incendiare il palazzo dei Buda. Dissuasi da un professionista del luogo, da quel giorno additarono il palazzo - scena del crimine - come quello degli “smaliditti” e la processione della Madonna Annunziata non fu più fatta passare da lì. Per quanto riguarda Vincenzo Buda, una volta scontata la sua condanna, confessò pubblicamente le sue colpe e chiese perdono all’intera cittadinanza, che per pietà lo riaccolse. Serafina invece, guarita improvvisamente dalla sua malattia, prese i voti entrando nell’ordine delle Suore Crocefisse di Gesù Sacramentato, scegliendo di chiamarsi suor Maria Ildegarda di San Pio.