Tuesday, 10 June 2025

Concerto di Pasqua

Ero a Roma nel frastuono pre-feriale. Una moltitudine in corsa verso un negozio, un pranzo, una televisione, una famiglia, un uovo di cioccolata col brand.

Improvvisamente, su un tram affollato, mi sono ricordata di quei monti, di quel silenzio acquatico, di quelle pietre bianche sulle quali mi sdraiavo toccando con le dita un lembo della fiumara, di quella solitudine maestosa sotto un cielo di vetro, tra l’Aspromonte e il mare. Ripensavo a quella strada che serpeggia verso Bagaladi, affiancando la fiumara del Tuccio con le sue storie di eremiti e démoni, alluvioni e secche bibliche, ruderi di conventi basiliani. Al lungo periodo che passai lì, al contrasto tra la sconcertante architettura locale dell’eterna incompiutezza e il capolavoro scultoreo di Antonello Gagini nella chiesa di San Teodoro dove, dal 1504, un angelo devoto si rivolge a una Madonna ieratica e assorta.

Attorno alla chiesa scampanavano le capre, a ricordare che sempre di latte si tratta, nutrimento e vita, come quello che scorre dai capezzoli di mammelle intagliate nel legno che si usano per dar forma al primo formaggio pasquale. Lì, uomini senza orologio orientano le loro vite con il sole e le stagioni, e passano tutti i loro giorni all’aria aperta con le bestie che allevano. Eppure: “Non è bella la vita dei pastori in Aspromonte, d’inverno, quando i torbidi torrenti corrono al mare, e la terra sembra navigare sulle acque”, scriveva Corrado Alvaro del quale ora celebriamo i 130 anni dalla nascita. “Vanno in giro coi lunghi cappucci attaccati a una mantelletta triangolare che protegge le spalle, come si vede talvolta raffigurato qualche dio greco pellegrino e invernale”, scriveva sempre Alvaro.

A Bagaladi i pastori si potevano riconoscere dal modo di portare la giacca appoggiata sulle spalle, per esempio, dal bastone ricurvo e intagliato, dal loro dominio sui precipizi e sulle rupi, dal senso di libertà. Come succede a pescatori e naviganti, mi sembrava che vivessero in un mondo a parte, segnato dalla solitudine di spazi immensi e dallo speciale sodalizio con quei luoghi impervi. Alcuni avevano corpi rampanti, abituati all’ascesa, nelle posture stanziali alternavano il peso sulle gambe in cerca di riposo e macinavano la fatica quotidiana, cultori di una propria lingua franca con gli animali, con le capre, che in quei giorni divennero protagoniste della mia ricerca.

Fino a quel momento l'unica capra che mi era familiare, era quella de "La casa di Hilde": quando cantavo la canzone di De Gregori alla chitarra, immaginavo la capretta incontrata oltre il confine dove non ci sono "fiori diversi", che si lasciava catturare, che "era curiosa di noi..". Ma a tu per tu, da sola con loro, non c'ero mai stata. Così mi accovacciavo per guardarle negli occhi, per farmi guardare, quando ”curiose di me” mi scrutavano interrogative, nell’ovile, alle sei del mattino. Potevo vedere le loro pupille rettangolari su fondo ambra, che permettono di aprire il campo visivo fino a 330 gradi, contro le ben più ristrette vedute dell’occhio umano, che può spaziare appena fino a 185. Intelligenti e di ampie vedute! Anche per questo, saltano e trovano equilibri impossibili sul filo spinato, in cima ai rami, sulla verticale di pietra del monte, come quadri alla parete.

Sono sveglie, simpatiche, ammirevoli, creano empatia con chi le osserva, si scambiano delicati gesti di cura e qualche sonora cornata. Il loro talento principale è lo spirito di adattamento alle più avverse condizioni di vita, ai terreni più aridi, capaci come sono di trasformare anche la sterpaglia più secca, la corteccia più coriacea, il muschio più indurito, in un bel secchio di latte. Proprio questa loro capacità alchemica ha permesso anche all’uomo che se ne facesse pastore di sopravvivere in tali accidentati frangenti. La capra è vita. Non per caso fu la capra Amaltea a nutrire Zeus neonato in fuga dal padre Crono: il dio, grato per l’adozione, creò da uno dei suoi corni la cornucopia dell’abbondanza e infine se la portò in cielo, eternandola nella costellazione del Capricorno.  «Venite, adesso andiamo a ‘rringari», mi chiamava il pastore. Verrà da arringare, incitare, questo verbo che riguarda l’apertura del recinto e la messa in libertà del gregge, esortato, appunto, a uscire con gesti plateali, grida e fischi? Agili, con il manto lucido e le corna ritorte, le capre volavano fuori dalla semioscurità caravaggesca dell’ovile, padrone di quell’immensità.  

Soprattutto mi ricordavo di lui, sul tram romano della vigilia di Pasqua, Mimmo Nucera, allevatore, pastore, macellaio, maestro nell’accordare le campane per le capre. “Dai nostri padri abbiano imparato l’arte dei collari e dei campani” - mi aveva detto mentre mangiavo la ricotta calda sul pane. Mi spiegava che il collare si fa col legno di gelso nero, messo a bagno e girato a mano o con u  votaturi, che si tiene legato per quattro giorni per poi essere inciso in punta di coltello con i disegni della tradizione greco-calabra. E le campane? «I campani sono la mia vera passione», aveva risposto. Fin dal suo bisnonno, si tramandavano l’arte dell’accordatura, quella che si mette in pratica con martelletto e incudine: «Un colpettino qua, un colpettino là, fino a trovare il tono giusto.»

Perché, secondo Mimmo, le campane quando si comprano non sono intonate e una alla volta vengono aggiustate in modo che il suono risulti armonico nel suo insieme, dal più alto al più basso. La musica accompagna da sempre i passi di questi uomini e si fa loro compagna e ciaramelle e zampogne dall’andamento ipnotico, segnavano come un mantra il paesaggio che li circondava. «Una volta si costruivano certi strumenti anche mentre si era al pascolo, -spiegava Mimmo - a frauta, il flauto di corteccia, quello che dura solo un giorno, per esempio, poi c’era il flauto doppio, e naturalmente, la zampogna, fatta proprio con la stessa pelle della capra.» La capra che suona come Roberta Tucci e Antonello Ricci hanno titolato il loro saggio fotografico sulla musica popolare in Calabria. Nel caso delle campane, però, la capra suona da viva, perchè, l’abilità del pastore sta nell’accordatura e nella bellezza del collare intagliato, al suono ci pensa la bestia. «Ogni campano ha la sua capra e ogni capra il suo campano», mi diceva Mimmo che sceglieva lo strumento proprio in base alla personalità dell’animale.

«Il suono più grosso di tutto il gregge, il campano più grande, lo porta la capra più bella, che chiamiamo frontaliera, ‘rrumbulina, quella che va in avanti, che dirige il gruppo, affidabile, fedele, quella che torna sempre a casa e ha l’autorevolezza per farsi seguire. Ma proprio tutte le campane sono fatte ad personam, scelte quando le capre sono ancora piccole, perché collare e suono corrispondono a un tipo specifico di animale e ogni singolo timbro musicale è un riferimento sicuro per tutto il gregge.» Poi ci sono giorni particolari in cui le campane delle capre assumono un significato più importante: il Venerdì Santo, per esempio, è l’unico giorno dell’anno in cui le campane sono quasi completamente assenti o “imbavagliate” con panni, in segno di lutto silenzioso. «Il giorno di Pasqua, invece, mettiamo tutte le campane disponibili – spiegava Mimmo - e così uomini e bestie partecipiamo alla Resurrezione del Signore: facciamo come facevano i nostri nonni, con le capre che riportano nell’aria la gioia del suono.»

Quella mattina a Roma era sabato di Pasqua e un richiamo irrefrenabile mi spingeva a occupare l’ultimo posto disponibile sul treno per la Calabria. Questa volta il torrente del Tuccio si attraversava a piedi nudi e pantaloni arrotolati fino alla coscia, resistendo alla forza impetuosa dell’acqua. “Siete venuta per il concerto!” Mimmo sorride. C’è anche Mico, qualche anno più di venti, pastore da sempre, timido ma risoluto come “qualche dio greco” quando salta il torrente, munge a ripetizione e dirige le capre con tutto il suo corpo. Incampanano insieme le duecento bestie euforiche, a ognuna il suo suono, il suo collare intarsiato, fermato con una fibbia di osso e un laccetto di cuoio. Si spalanca il cancello a campane spiegate, e in questa agreste piazza San Pietro il suono esplode festivo, esce in massa dall’ovile, libero, dirompente, in corsa. Sale il pendio, si allarga sulla fiumara, rimbalza sulle pareti delle montagne, scorre nelle acque fredde, lo portano le nutrici di Zeus, il vento lo spande sul mondo, i prati fioriscono, Persefone ritorna dall’Ade, Gesù ha lasciato il sepolcro.

Fotografie di Patrizia Giancotti

Print