Morire nei nostri paesi è altra cosa dal morire in una grande città. Dove vivo io, si capisce che è morto qualcuno dall’aria che tira in piazza.
Lo si vede al primo sguardo dal passo più lento, dal bar chiuso, dalle facce, dalla pasticceria che non fa cornetti alla crema, ma anche da qualcosa di impalpabile, che sta nel riverbero della luce, nell’aria, appunto, qualcosa che arriva prima del suono delle campane. Quando, a Torino, portarono giù la bara del mio vicino di sopra fino all’uscita del palazzo, molti inquilini si chiesero chi fosse. Qui, invece, i morti si conoscono tutti, anche se da vivi sembra di no, si sa sempre di chi è padre, madre, fratello, il defunto. Lo si visita a casa o in ospedale, prima che la bara venga chiusa, si saluta il suo corpo che riposa, si guarda il suo viso libero dal dolore, ci si siede intorno a lui, come attorno al fuoco, e, tra le lacrime, partono i ricordi, i racconti.
Fino a qualche decennio fa, anche qui c’erano ancora donne che univano il loro pianto a pagamento a quello di parenti e amici del defunto, si chiamavano ciangiulini o ciangiuledhi. Reminiscenze magno-greche, il famoso “pianto greco” appunto, le si possono riconoscere con bocche canore attorno al defunto, in un frammento di vaso attico del 500 a.C., ancora più eloquente e corale la loro presenza sulla grande anfora del 760 a.C ritrovata nella necropoli di Atene. Prefiche, le chiamavano in latino da praeficĕre, precedere, essere preposti, perché, piangenti, cantando e tessendo lodi, precedevano il feretro nel corteo funebre. Possiamo persino ascoltare cosa resta della loro vocalità vertiginosa nel documentario “Stendalì - Canti e immagini della morte nella Grecìa Salentina” che Cecilia Mangini girò in Salento nel 1959, canto in greco salentino, simile al nostro greco di Calabria, che Pasolini tradusse in italiano per il film.
Secondo la tradizione classica, così come la illustrano Omero ed Euripide, l’onore del canto da tributare al defunto favorirebbe il viaggio dell’anima e avrebbe la funzione di aggregare attorno ad esso chi resta. Nel classico “Morte e pianto rituale nel mondo antico” Ernesto de Martino colloca la lamentazione sui defunti nell’ambito delle forme di catarsi, quando il dolore provocato dalla perdita di una persona amata apre un rischio radicale, quello di essere trascinati con lei. Per questo, scrive De Martino, non è possibile piangere soltanto, ma bisogna saper piangere, dare forma condivisa al dolore, offrendogli una via d’uscita che consiste nel porre l’evento in una dimensione mitica e universale. La morte di un congiunto può apparire anche a noi, lontani dagli orizzonti culturali studiati dall’antropologo napoletano, come uno scandalo irreversibile, una crisi senza orizzonte, può portare con sé annullamento e dissoluzione dell’orizzonte noto, incredulità, negazione, rabbia, estraniazione dal mondo, perfino furore distruttivo.
Ma proprio sull’orlo del rischio estremo, le antiche società imparavano a gestire il senso di impermanenza attraverso in controllo rituale del patire. Nei nostri paesi che ne coltivavano l’uso, il canto è svanito, sostituito da un silenzio denso, ma resta molto dell’antica ritualità e del suo carattere consolatorio. Un’intera comunità si stringe compatta attorno a chi è stato colpito, tutto il paese accompagna la bara fino alla chiesa e, dopo la messa, i parenti si schierano in fila sotto l’altare, mentre un interminabile corteo si srotola fino a loro.
Ci sono centinaia e centinaia di mani da stringere, di abbracci, di ricordi sussurrati all’orecchio del parente più prossimo, di parole di conforto, poi l’accompagnamento a piedi fino al cimitero, infine “il consolo”. Quell’usanza molto diffusa in tutto il meridione, secondo la quale parenti e amici preparano zuppiere di brodo e minestre, bollito, insalate e pietanze, per la famiglia del defunto. Come a rinsaldare l’antico legame tra cibo e morte, che porta in alcuni casi, come ad esempio in Messico, all’istituzione di veri e propri banchetti da consumare a lato dei defunti, il consolo ci ricorda che nutrirsi è una necessità, ma anche uno dei piaceri dell’esistenza: ha lo scopo di riportare alla vita chi resta.
Attraverso il cibo, che chi vive il lutto non avrebbe avuto la forza di preparare, si porta conforto e nutrimento anche all’anima dolente. Succede anche che, proprio all’ora di cena, il suono del campanello preceda l’entrata in casa di una monumentale scatola di pizza appena sfornata, inviata dalla cara vicina, e che la mattina dopo termos di caffè caldo appaiano sulla soglia insieme a vassoi di paste, cornetti e ciambelle.
Non si tratta solo di una questione pratica, di un servizio come quello offerto da un’agenzia funebre di Bergamo come “catering post cerimonia”, ma di una nobile usanza, di un amorevole gesto di cura, che in Calabria è patrimonio di umanità e civiltà, che esprime condivisione, comprensione e concreta vicinanza nel momento più buio, quello in cui la morte ci appare come la più grande delle ingiustizie. In questo duro inverno, abbiamo avvertito numerose volte quella particolare aria in piazza, in molti sono partiti per altri lidi e anch’io ho ingoiato lacrime e brodo, dopo aver accompagnato mia madre, fino all’evidenza: io sono qui, lei non più. Eppure, dopo il dolore, l’abisso, il pianto, il cibo, mi consola che sia successo proprio qui, un luogo in cui ci si ritrova vicini e insieme di fronte all’unica certezza.