Torna al Convento della Riforma, restaurato da Giuseppe Mantella, il “Cristo di di Cutro”, monumento nazionale dal 1940 e realizzato nel 1636 da fra Umile Pintorno da Petralia, scultore d’arte sacra tra i più prestigiosi del Seicento italiano. E quest’anno è prevista la processione del Crocifisso che, a cadenza settennale, richiama migliaia di fedeli.
Se nelle cronache sul buio dell’umanità che il 26 febbraio (a ridosso della costa di Steccato di Cutro) ha inghiottito cento persone in fuga da terre invivibili, i riferimenti al “Cristo di Cutro” sono stati pari a zero, non è perché questo simbolo perenne dell’agonia dell’uomo di tutti i tempi s’è girato dall’altra parte.
Non è stato ignorato per rimproverargli l’immobilità che non s’addice a un Dio misericordioso. O perché non s’è degnato di prestare ascolto alla disperazione di quegli uomini, donne e bambini annegati sotto i suoi occhi.

Non è stato mai menzionato perché Lui non era nel Convento. Fatto è, tuttavia, che d’ora in poi, il “Cristo di Cutro”, violentemente torturato, i chiodi rabbiosamente ficcati nelle mani e nei piedi, la testa reclinata sulla spalla destra e il volto esausto, sangue cola dalle tempie, sul collo, sulle braccia e sgorga dal costato, non rappresenterà più soltanto i contadini vinti del Marchesato. Che, angustiati da incursioni turche, carestie, fame e pestilenze, dai venti asciutti e dai baroni rapaci, tra il ’43 e il ’53 osarono ribellarsi e poi furono traditi e dispersi in tutto il globo terracqueo.
E non rappresenta più soltanto le partenze dei secoli scorsi (“di notte, come lupi, come contrabbandieri, come ladri” direbbe il poeta Franco Costabile) degli uomini, delle donne e dei bambini di Cutro e del Marchesato che, in cerca di migliori condizioni di vita, sono scappati dalla Calabria, diventando “l’odore di cipolla che rinnova le viscere dell’Europa”.
E che Pasolini incontrò, quando venne qui con una Fiat Millecento. Prima, nel 1959, per realizzare “La lunga estate di sabbia”, poi nel 1964 per girare il film che gli costò l’accusa di vilipendio della religione. Quel “Vangelo secondo Matteo”, per cui impiegò molte comparse del luogo e affidò al partigiano Rosario Megale il ruolo di san Tommaso.
Il “Cristo di Cutro che, quando le cose si sono messe male, è stato abbandonato persino dai suoi più fidati amici, dodici, uno dei quali, Giuda Iscariota, dopo averlo baciato lo tradì (e poi s’impiccò), consegnandolo agli aguzzini per trenta monete d’argento, d’ora in avanti si porterà sulla pelle scarnificata anche il dolore dei bambini, delle donne e degli uomini che, per ignominiosa indifferenza, chiamiamo migranti.
Nella smorfia di sconforto del “Cristo di Cutro” si riflette anche lo sconforto di una massa di individui che, con ogni mezzo, sfidano muri, discriminazioni, trafficanti d’esseri umani e mafie. Per non obliare la memoria delle grida dei bambini uccisi dal mare e degli sguardi perduti dei morti e sopravvissuti nel naufragio di febbraio, c’è da accostarsi al “Cristo di Cutro”. E ascoltare, dalle sue labbra tumefatte, quel disperato lamento in aramaico: “Elì, Elì, Iemà sabactani?”, che è anche l’imprecazione dei migranti privati di ogni diritto.
Con una differenza rispetto alle urla agghiaccianti di quest’umanità soffocata dalle onde. Lì, nello Ionio, angoscia e cupo smarrimento per la speranza infranta. Nel volto del “Cristo di Cutro”, angoscia e sangue. Smarrimento no. L’Uomo è in croce perché ha un progetto da realizzare. Ha attraversato una parte di terra resuscitando morti, guarendo ciechi e paralitici, lasciando, a chi l’ha ascoltato, messaggi sconvolgenti.
“Da mezzogiorno fino alle tre del pomeriggio si fece buio su tutta la terra”, annota Matteo, uno dei quattro inviati speciali cui fu dato il privilegio di tramandare eventi che hanno segnato il corso della storia. I suoi biografi asseriscono che era “figlio di Dio”. Ma la sua implorazione viene dalla carne flagellata, dal costato aperto e dai piedi irrigiditi. Come l’implorazione dei morti di fronte le coste calabresi.
D’ora in avanti, per avere memoria dello strazio di quella carne da macello del nostro tempo, bisognerà fissare lo sguardo sull’Uomo con le braccia spalancate, lasciato in balìa della bestialità dall’ora sesta all’ora nona, con la testa maciullata da una beffarda corona di spine.
Il rantolo sconvolgente del figlio di Dio, solo come nessun altro al mondo, è il rantolo dei morti di febbraio che, imbarcati a Smirne si sono schiantati, perché anche la fortuna li ha ingannati.
Soli loro e solo Lui su quella croce di legno nel Convento della Riforma di Cutro, su cui svetta il titulus con la sentenza: INRI. Il figlio di Dio sorride, agonizza e muore. Nella croce imbastita con i rottami dell’imbarcazione dei migranti, c’è invece la denuncia potente della pietà che l’Occidente ha mercificato.
Verso Cutro, “città” per concessione di Filippo II di Spagna nel 1575 in quanto un suo cittadino (“Puttino”) fu campione di scacchi d’Europa e del Nuovo Mondo, il paesaggio è brullo. “Poi la strada lascia il mare e s’interna in una zona tutta gialla, con le colline che sembrano dune immaginate da Kafka e il tramonto le vela di un rosa sangue”, scrisse Pasolini. Nel viaggio che gli valse una lunga polemica e più tardi il Premio Crotone da una giuria presieduta da Carlo Emilio Gadda.
Kyterion, tra i fiumi Tacina ed Esaro: dove l’Uomo costretto sul legno, è una realtà vibrante. Unisce i fili di duemila anni di storia e ai ricchi preclude il regno dei cieli, mentre esorta i puri di spirito a diffidare delle porte larghe, se vogliono sconfiggere le tenebre.
La strada che porta da San Leonardo (sulla “106”) al Vignale di San Basilio, sembra il percorso che da Gerico conduce a Gerusalemme e sul rialzo svetta il Convento della Riforma, dov’è custodito dai frati francescani il “Cristo di Cutro”.
Sul crocifisso ligneo il volto affranto di Cristo ha sul naso una stilla di lacrima. Anche Cristo piange. Sorride, se lo guardi da sinistra, ti parla se lo scruti dal centro, rassegna l’anima al padre, se ti metti a destra. Il Cristo di Cutro, se lo guardi dal centro, ha fiducia in Dio. Ma, scrutato da destra, è un uomo senza più radici né legami, che nella morte trova l’unica sua via di fuga da un tempo feroce.
“Nel sorriso dei giovani (cutresi) che tornano dal loro atroce lavoro”, Pasolini intuì “un guizzo di troppa libertà, quasi di pazzia”. Rievocando la polemica Pasolini-Cutro ( il paese si risentì per alcune espressioni dello scrittore pubblicate dalla rivista Successo nel 1959: “Il paese dei banditi come si vede nei western. Ecco le donne dei banditi, ecco i figli dei banditi”), il Cristo di fra Umile Pintorno può senz’altro simboleggiare un bandito di Cutro in croce. Bandito, nell’accezione che ne diede lo scrittore, con l’intento di placare l’irritazione dei cutresi. Nel senso che “i poveri sono bànditi dalla classe dominante, che li sfrutta e li spinge indirettamente al crimine”.
Scriveva queste parole Pasolini, ignaro delle migrazioni di popoli diseredati che ai nostri giorni lasciano l’Africa e l’Asia insanguinando il Mediterraneo, ma, nella sua aspra critica della modernità che sacrifica i valori per un edonismo al servizio del consumismo, intuì la “mutazione antropologica” in corso e il rischio del “genocidio culturale” dell’Occidente.