Il 9 novembre dell’89 lo ricordiamo tutti, il muro di Berlino cadde ridisegnando i sottili equilibri del mondo.
I patriottici (e non solo) ricordano con commozione quel 24 maggio, “Il Piave mormorava calmo e placido al passaggio dei primi fanti”. Sono alcune delle molte date celebri che troviamo nei libri di storia, indicandoci, a buon diritto, ciò che siamo stati, ciò che dovremmo essere oggi, ciò che dobbiamo imparare per il domani. Ma di date memorabili ne esistono tante, tantissime altre. Giorni altrettanto cruciali, eventi innegabilmente determinanti. Eppure, non si sa perché, il velo dell’oblio oscura e seppellisce svariati nomi, fatti, date e luoghi nella più profonda delle voragini della memoria. Accade troppo spesso la distruzione del passato, motivata dalla convinzione che il futuro, per esistere, necessiti del solo presente. Così, tutto rimane campato in aria, senza una logica, senza un filo temporale. Accade ovunque e accade in Calabria: a scuola insegniamo la storia d’Italia, ma che importa se i nostri ragazzi ignorano le guerre per il pane dei nostri contadini e i suoni antichi del grecanico e dell’arbëreshe. Addentrarsi nel vissuto collettivo di una comunità sembra troppo complicato e nebuloso – una mossa incauta che svelerebbe verità scomode – tanto vale fermarsi a ciò che è chiaro, universale, ben definito. Per fortuna non tutti la pensano così: che siano singoli individui o alacri associazioni, c’è chi pretende di scoprire ciò che definisce la nostra identità. E cerca di fare chiarezza tra piccole biblioteche, archivi e cortili semi-deserti di paesi remoti. È quanto fa Claudio Cavaliere, sociologo e giornalista che evita tele già imbastite. È così che è nato “Tumulti – Stragi contadine in Calabria (1906-1925)” (Rubbettino editore, con prefazione di Isabella Bossi Fedrigotti): dal bisogno di far sapere che esiste un’altra storia, o meglio storie nella Storia che meritano di entrare nel circuito “ufficiale” della storiografia nazionale. Perché a fare la storia del nostro Paese sono, anche e soprattutto, i disgraziati che annaspano nella sventura. Gente sciagurata a cui nessuno ha mai teso un appiglio, brutalmente gettata nella fossa della dimenticanza. Scrive Cavaliere: «Volevo fare emergere quei fattori umani sempre così sottovalutati dai professionisti della materia: le umiliazioni, il disprezzo dei governanti, le violazioni della dignità, lo scontro tra un mondo che cerca disperatamente di uscire dalla paura e un altro che cerca di mantenerla, l’umanità che si nasconde dietro a fenomeni storici e sociali che siamo abituati a leggere attraverso credenze consolidate fatte di parole e teorie apparentemente indiscutibili ma spesso vuote, attraverso date e numeri». Questo mondo è quello dei contadini calabresi, che tra il 1906 e il 1925 in ogni angolo della regione si ribellano a una condizione di fame e sottomissione e rivendicano, semplicemente, i propri diritti. Stragi ed eccidi ne furono la risposta: sangue versato «per la dignità e la democrazia» di cui quasi nessuno, oggi, sa niente. Spiega Cavaliere: «Molti degli episodi qui raccontati erano già scomparsi dall’orizzonte della conoscenza comune da tanto tempo. Ho incontrato giovani sindaci senza alcuna memoria, comunità in cui quei fatti sono invece meravigliosamente presenti nella polemica politica recente e cittadini svagati che pensavano che quei nomi di caduti risalissero alla Prima guerra mondiale». In tanti conoscono la storia di Giuditta Levato, la contadina di Calabricata sparata nel ventre gravido mentre difendeva «la terra della vita», raccontata nel libro “L’ape furibonda” (Rubbettino), scritto da Romano Pitaro insieme a Bruno Gemelli e allo stesso Cavaliere. Ma quanti conoscono le tribolazioni di Anna Gallo, Filomena Marra, Armenia Dramisino, Rosa Bertucci, Maria De Caria, Barbara Veltri? Cavaliere attraversa la Calabria da nord a sud, cercando, chiedendo, ragionando su notizie sparse, frammentate, distorte nel tempo. Per poi avvolgerle con uno sguardo d’insieme che contiene in sé cause e conseguenze, circostanze e ideali, insieme ai trascorsi di una politica locale disordinata sempre intrecciata a quella del potere centrale. Ed ecco tracciata la geografia di sangue che disegna la strada delle speranze tradite: Benestare, Firmo, Olivadi, Vallelonga, Sinopoli, Plataci, Aiello Calabro, San Calogero, Casignana, San Giovanni in Fiore. Diciannove anni di lotte, decine di morti senza distinzione tra uomini, bambini, anziani e donne incinte. In piazza per rivendicare il diritto alla coltivazione della terra che sopperisca alla fame straziante, a strade e ferrovie che li liberino finalmente dall’isolamento, alle urgentissime cure mediche che li salvi da colera, polmonite, tubercolosi, malaria. In piazza per la tassazione impazzita, per il debole, impercettibile intervento dello Stato all’indomani di terremoti che costringono la popolazione in baracche immonde o tra i ruderi delle case. Insomma, in piazza per un’esistenza dignitosa. «Loro ci mettevano tutto quello che avevano: i loro corpi, la loro disperazione, la collera per le ingiustizie. Mai però che venissero presi sul serio». Anzi, sempre accusati di aver fomentato e incitato alla violenza da uno Stato neanche a dirlo cieco e assente; sempre trattati con sufficienza da una storiografia che avrebbe dovuto insistere su una coscienza sociale e politica ingiustamente seppellita e su un coraggio di cui oggi nessuno sa nulla. Allora, sollecita Cavaliere, iniziamo ad arricchire il nostro calendario delle ricorrenze: il 9 novembre, insieme alla caduta del muro di Berlino, ricordiamoci delle donne di Plataci; il 2 agosto rendiamo omaggio alle vittime della strage di Bologna, ma anche ai morti di San Giovanni in Fiore; il 24 maggio che un pensiero vada a Benestare, mentre cantiamo con la mente “Il Piave mormorava…”.