La radiosa ballata di Eugenio Bennato sulla fabbrica delle Serre calabre (“la più grande fabbrica d’Italia”), arricchita da un brillante video di animazione e anticipatrice del nuovo disco del cantautore in uscita a gennaio, toglie dall’oblio una vicenda cruciale per comprendere i torti subiti dalla Calabria.
Non per compiacere un Mezzogiorno tapino, che si piange addosso fino al punto di pensare all’epopea industriale di Mongiana come a un paradiso perduto, ma per ricordare che l’Unità d’Italia s’è fatta facendo ingoiare bocconi amari al Sud. E neanche per il gusto della polemica o per reclamare risarcimenti, ma perché “è la storia, bellezza!”
Il Museo multimediale, ospitato da alcuni anni nella Fabbrica d’Armi e nelle Reali Ferriere di Mongiana, documenta che prima del 1861 la Calabria era il polo siderurgico del Regno Borbonico, all’avanguardia nella tecnologia metallurgica. E dopo, a Italia fatta, più nulla.
Occupavano un’area di 12.000 metri quadri, con tre altiforni e sei raffinerie e davano lavoro a 3000 persone. I fucili di Mongiana erano venduti in tutt’Europa e lì nacque il fucile da fanteria modello “Mongiana”. I binari della prima ferrovia d’Italia, Napoli-Portici, furono costruiti col ferro di Mongiana. Tra il 1822 ed il 1829 a Mongiana venne realizzato il primo ponte sospeso in ferro d’Italia: il “Real Ferdinando” sul fiume Garigliano progettato su idea del prof. Carmine Antonio Lippi; e, tra 1832 e 1835, il Ponte “Maria Cristina” sul fiume Calore Irpino, progettato dall’ingegnere Luigi Giura.
Il legno dei boschi circostanti era trasformato in carbone per alimentare i forni di fusione e l’energia per far muovere le macchine veniva fornita dai fiumi Ninfo e Allaro.
E il borgo di Mongiana, oggi a rischio estinzione, era florido e vivace. Ma poi – testimonia il Museo – arrivò l’Unità nazionale con i piemontesi. Le macchine metallurgiche furono saccheggiate e la fabbrica impiantata a Terni.
L’area espositiva del Museo, recuperata con i finanziamenti della Regione Calabria, propone una carrellata di pannelli in italiano e in inglese che si soffermano sugli oltre cento anni di vita di una realtà “all’epoca unica in Italia”. Nelle teche sono esposte le armi uscite dalle fonderie delle Ferriere di Mongiana.
C’era un triangolo industriale: oltre alle Ferriere di Mongiana, le miniere di Pazzano e quelle (private) di Cardinale. Poi venne la pioggia battente e il freddo, la nebbia copri ogni cosa, soldati a cavallo armati fino ai denti vennero a issare il vessillo tricolore e l’industria svanì. Così fu rubato il ferro a Mongiana. E condannato un popolo all’emigrazione.
Si disse, nel 1861, appena i piemontesi imposero l’Italia al Mezzogiorno, che in futuro gli altiforni della siderurgia dovessero sorgere in pianura. Le rotaie delle miniere delle Serre furono vendute a peso. Nacque l’acciaieria di Terni. Guarda caso: sui monti.
Ci furono proposte: al governo dell’Italia liberale gli operai delle Serre offrirono di ridursi la paga. Supplicarono attenzione. Ci furono proteste: il tricolore sotto i piedi; no al referendum per l’annessione e l’assalto alla sede della Guardia Nazionale. Si formarono due bande, le donne in piazza al grido di “Viva don Ciccio” (Francesco II) e la bandiera bianca con i gigli. Subentrarono le partenze: al Nord, negli Stati Uniti, in Canada e in America latina.
Veniva soppressa, di punto in bianco, dall’Italia di Cavour e di Vittorio Emanuele II, una delle fabbriche siderurgiche più importanti del XIX secolo. Un’industria risalente ai fenici.
Rievoca tutto ciò, dopo anni di silenzio sul clamoroso scandalo con cui l’Italia appena nata mostrava a questa parte del Sud il volto peggiore, l’artista di “Brigante se more”, che non sollecita anacronistici revisionismi, ma, in un tempo la cui cifra è la smemoratezza, un’impennata della memoria.
Anzitutto sulla Reale Ferriera, cui davano impulso le Officine di Pietrarsa dopo gli interventi di modernizzazione decisi da Ferdinando II, che a Mongiana aveva spedito i migliori mineralogisti sassoni ed ungheresi per formare gli operai. Lo zar fece riprodurre (identica) la fabbrica in Russia inaugurando le Officine di kronstadt.
“Mongiana Calabria profondo Sud” ricorda, inoltre, che c’è stato un tempo in cui, prima che giungesse Garibaldi, le Regie Ferriere davano di che vivere a tutti gli abitanti della zona. Prima dell’Unità d’Italia, il polo siderurgico calabrese era una realtà industriale d’interesse internazionale. “Dalle Serre – scrive lo storico Augusto Placanica – il ferro, fucinato e lavorato con produzione fra l’altro di fucili e cannoni per l’esercito, veniva portato alla marina di Pizzo, e di qui avviato per mare ai mercati d’assorbimento…”.
E ancora: che l’epoca in cui in Calabria si usava fondere con forni itineranti il rame, il piombo, l’argento e il ferro servendosi di forni itineranti, risale addirittura ai fenici. E poi la lunga storia della fabbrica: secondo la ricerca condotta dagli architetti Brunello De Stefano Manno e Gennaro Matacena sulle Reali Ferriere, le miniere di ferro di Stilo (fornivano la materia prima a Mongiana) furono donate dai Normanni a San Bruno di Colonia, con un atto sottoscritto da Ruggiero il Gran Conte. Anche gli Svevi e gli Angioini sfruttarono il ferro nelle viscere della roccia Consolino (sopra Stilo).
Le miniere erano date in concessione agli “arrendatari”, che versavano una rendita annua alla Certosa ed al re. Nel 1523 Carlo V donò le miniere a Cesare Fieramosca, fratello di Ettore, capitano degli undici italiani vittoriosi sugli undici francesi nella disfida di Barletta. Ma Cesare non aveva l’arguzia del fratello e lasciò perdere. Quando toccarono ai Borboni, le ferriere calabresi fecero parte del piano della metallurgia voluto da Ferdinando IV. Le Regie Ferriere (gli stabilimenti di Mongiana e della Ferdinandea) furono il mercato più generoso per l’occupazione serrese: bovari, per il trasporto del materiale, carbonai, lavoratori boschivi, quindi gli artigiani, maestri fabbri ferrai, “i quali si imposero per la loro bravura, quando annessa alla fonderia sorse una fabbrica d’armi,, anche per la produzione d’utensili vari”.
Tutto finì, incredibile ma vero, con Garibaldi. Sbarcato in Calabria e salendo lungo la costa tirrenica, sostò a Pizzo e da lì inviò 1370 uomini comandati dal capitano Antonio Garcea con l’ordine di occupare Mongiana, “requisire lo stabilimento, la fabbrica d’armi, cosi importante per l’economia di quella marcia verso Napoli”. Qualche innocua fucilata e la resa dei 25 borbonici a guardia di Mongiana.
Cessava di esistere le ferriere con la nascita dell’Italia liberale. “L’antica isola d’industria mineraria, che – scrive lo storico Pietro Bevilacqua – in età borbonica aveva prodotto quantità rilevanti di materiale ferroso, entrò in crisi a causa delle scelte economiche dei governi liberali che ebbero in Calabria conseguenze anche immediate. L’industria mineraria fu indubbiamente quella che per essere legata alle commesse governative sentì più repentinamente gli effetti della nuova situazione”.
La denuncia di De Stefano/ Matacena è scolpita nei numeri. Suffragata dalla massiccia emigrazione che si ebbe nelle Serre, specie alla fine dell’Ottocento. E fa capire quanto l’Italia tenesse in considerazione il Sud:
“Lo Stato unitario privilegiò subito la componente piemontese-ligure. Il nuovo governo favori spudoratamente la siderurgia ligure, tant’è che l’Ansaldo, che prima del 1860 contava la metà dei dipendenti di Mongiana, a Italia fatta li raddoppia, mentre, allo stesso tempo, sono dimezzati quelli del Meridione. Il Sud si troverà a recitare il ruolo di portatore d’acqua e i meridionali quello di braccia lavoro. Il Mezzogiorno, arrestato dall’amputazione della gamba industria, non poté reggersi sulla gamba agricoltura, perché neppure quella fu sviluppata. Se oggi il Sud è degradato e diverso dal Nord si deve molto a quella lontana concezione di unità”.
Parole di fuoco pronunciò il meridionalista Nicola Zitara su quella “strage” che lo Stato appena nato fece in Calabria: “L’unità d’Italia ha tutt’altro che occidentalizzato il Mezzogiorno. L’unificazione del mercato nazionale gli ha spezzato le reni”.
Migliaia di famiglie sul lastrico e la distruzione dell’industria delle Serre alimentata da minerali ferrosi delle sue rocce, organizzata da tecnici e operai del luogo, alimentata con energia ricavata dai suoi ricchi e splendidi boschi, fu colpita al cuore. Un’industria d’interesse strategico per il Regno delle due Sicilie fu cancellata con un tratto di penna. E un’area della Calabria condannata all’inedia e alla fuga.
Quando nel 2011 fu festeggiato il 150esimo anniversario dell’Unità nazionale, il comitato interministeriale costituito nel 2007 con il compito di pianificare iniziative ed interventi, avrebbe potuto inserire nel programma le scuse dell’Italia alle Serre calabresi. Non lo fece.
Tra le tante “scuse” che, a drammi storici consumati, si colgono qua e là, queste non avrebbero sfigurato. Se non altro, avrebbero potuto riconoscere lo scempio provocato.
Che fine fecero le ferriere di Mongiana dopo il misfatto? Pazzesco. Mentre ancora nel 1861 la “Real Ferriera” è premiata all’Esposizione industriale di Firenze e nel 1862 all’Esposizione industriale di Londra, lo Stato italiano la butta via.
La comprò, una volta chiusa, un certo Achille Fazzari. In regolare asta a Catanzaro. Prezzo in un unico lotto: 524.667, 21 centesimi. Chi era costui? Un sarto, poi colonnello al seguito dell’Eroe dei due mondi e senatore con l’Unità d’Italia; “divenuto infine”, scrive sarcastico Sharo Gambino, l’indimenticabile scrittore delle Serre, “industriale per avere acquistato la Ferdinandea”.
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Dichiara Eugenio Bennato: “Fra le tante storie che il mio sud mi ha raccontato, quella di Mongiana è forse la più clamorosa, perché va a ribaltare un’immagine consolidata da decenni e da secoli, l’immagine di una Calabria arroccata nelle sue antiche tradizioni e incapace da sempre di interpretare e affrontare la modernità. Eppure, le splendide case operaie costruite a metà Ottocento sono lì e ci rimandano alla presenza di 2800 operai e tecnici che curavano la produzione siderurgica della più grande fabbrica dell’Italia preunitaria, sfornando l’acciaio utilizzato per il ponte sul Garigliano e per le rotaie della ferrovia che da Napoli saliva a Bologna. Con l’Unità quella fabbrica fu dismessa e gli altoforni furono trasportati a Terni e a Lumezzane. A parte la dissennata dismissione, mi ha scosso la totale rimozione del nome Mongiana da tutti i libri di storia, da tutti i pensieri, da tutti i ricordi. Al punto che oggi quel racconto appare come un sogno lontanissimo dalla realtà. E allora mi viene incontro la realtà della musica popolare calabrese, per provare a infrangere con il suo ritmo quel tabù impenetrabile, quella storia incredibile.”