Il Codex Purpureus Rossanensis - uno dei più antichi evangeliari esistenti al mondo - è tra i tesori più preziosi dell’intero patrimonio dell’umanità dell’Unesco.
Un capolavoro di valore inestimabile. Le sue miniature bizantine sulla vita di Cristo sono considerate le migliori opere in assoluto di tutta la letteratura evangelica.
Ma se Rossano è l’indiscussa sua “patria adottiva”, resta misteriosa, o quantomeno non certa, la sua “patria nativa”; cioè, il luogo di realizzazione del Codex.
Un rompicapo per gli studiosi, come è un arcano pure appurare attraverso quale percorso l’opera sia giunta nella città calabrese, all’epoca centro strategico dell’Impero di Bisanzio.
Se la scuola del Codex sia quella di Antiochia di Siria o di Cesarea di Palestina è stata da sempre una avvincente (e dibattuta) disputa. Nonostante numerosi studi e ricerche, rimangono dubbi e interrogativi intorno a questo tema, nonostante ognuna delle differenti ipotesi sia stata sostenuta con argomentazioni convincenti. Sul mistero (le origini) che ancora non si è riusciti a chiarire, a far luce, dedica uno studio approfondito il vescovo Luigi Renzo (diocesi di Vibo-Mileto) che per vent’anni è stato direttore del museo diocesano dove il Codex si custodisce. Renzo è il religioso studioso che ha avuto più di ogni altro “confidenza”, col prezioso manoscritto. Ha affrontato sempre la questione della nascita del codice con rigore scientifico e passione culturale.
Evocando sulla scia di altri studiosi l’ipotesi di una patria addirittura diversa da Cesarea o Antiochia: Alessandria, Cappadocia, Italia meridionale, nel suo ultimo libro “La patria del codice purpureo” (Consenso Iure Loquitur edizioni, pagine 110) Renzo suggerisce di indirizzare le ricerche verso un terzo polo, e precisamente verso la captale stessa dell’Impero Romano d’Oriente, cioè Costantinopoli. E’ solo un suggerimento, per tentare di scoprire il mistero che, in mancanza di nuove e attendibili prove documentarie, resterà tale. L’autore trova modo, nella sua nuova pubblicazione (è scrittore prolifico) di ripercorrere la storia del Codex: rivisitare le scuole teologiche dell’epoca, soffermarsi sui codici bizantini di Costantinopoli, riprendere le scuole di pensiero sull’attribuzione all’una o all’altra, ipotetica, patria del Codex, e di inserire, nel prezioso saggio, un’appendice sui “gialli” nati intorno al manoscritto. Gialli da incubo; sull’idea di portarlo via da Rossano, dopo la sua scoperta, sul finire dell’Ottocento, da parte di due studiosi tedeschi, Gebhardt e Harnack.
Gialli, sulle parti mancanti del Codex, e gialli sui pericoli corsi durante la guerra, per la paura che i tedeschi lo sottraessero a Rossano. Renzo racconta come l’arcivescovo dell’epoca, Domenico Marsiglia, pensò bene di nasconderlo, facendolo murare nella cassaforte segreta della Curia. E’ un libro nel libro, l’appendice “thriller” di “La patria del Codice Purpureo”. Il vescovo conferma le sue già note qualità di scrittore presentando però un versante inedito della sua scrittura: il giallo letterario. Reso più interessante dalla minuzia dei dettagli che arricchiscono il racconto sull’Evangelario rossanese. Ma l’interesse “nuovo”, intorno alla storia del Codex, spunta dal “consiglio” di monsignor Renzo di intraprendere nuove strade per scoprire il luogo d’origine del prezioso evangelario, senza nulla togliere al valore delle ipotesi già consolidate tra gli appassionati del capolavoro di Rossano.