Piaccia o no, prima o poi la riforma del c.d. regionalismo differenziato probabilmente si farà, vuoi perché esiste già un regionalismo asimmetrico, naturalmente non di diritto, ma di fatto, per le disparità economiche, sociali e di efficienza amministrativa esistenti fra le Regioni italiane, vuoi perché è l’unica alternativa – senza dover ricorrere alle procedure aggravate di revisione Cost. – materialmente praticabile per le Regioni più avanzate del Nord Italia, sempre più distanti oggi dalle altre (soprattutto meridionali), per far fronte alla (non esplicita, ma strisciante e ricorrente) tentazione separatista/secessionista.
Il fenomeno si colloca nel quadro più ampio di un Vecchio Continente in cui si agitano i demoni della divisione identitaria o del semplice egoismo economico (basti pensare alla Catalogna o al rischio di hard Brexit). Un vero Stato sociale/costituzionale, invece, dovrebbe caratterizzarsi per un buon “equilibrio” fra le istanze di valorizzazione delle diversità territoriali (differenziazione) e di omogeneizzazione dei servizi sociali e della qualità della vita per tutti i residenti, non solo cittadini, nel territorio dello Stato (solidarietà nazionale).
Introdotto nel 2001 con la riforma cost. del Titolo V promossa dal centro-sinistra per resistere alle tentazioni secessioniste della Lega Nord di U. Bossi, il regionalismo differenziato o asimmetrico (art. 116, III, c. Cost.), com’è noto, ha visto attive nel 2017 Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna. Per effetto emulativo, altre 7 Regioni ordinarie (Campania, Liguria, Lazio, Marche, Piemonte, Toscana e Umbria) avviavano le trattative – sempre a due: Stato e singola Regione – per ottenere ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia. Altre 3 Regioni (Basilicata, Calabria, Puglia) assumevano iniziative “preliminari”. Soltanto 2 Regioni (Abruzzo e Molise) non invocano l’art. 116, III c. Cost. In pratica quasi “tutte” le Regioni ordinarie si sono imbarcate, per un verso o per l’altro, nell’avventura del regionalismo differenziato.
In realtà, anche se l’art. 116, III c., non lo prevede, se è vero che a maggiori capacità di gestione dovrebbero corrispondere maggiori competenze, è anche vero che a minori capacità di gestione dovrebbero corrispondere minori competenze. Con una “provocazione”, è un po' come quando nel Vangelo si dice: «A chi ha sarà dato e sarà nell'abbondanza; e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha» (Mt. 13,12).
Purtroppo l’aumento di competenze e la crescita di disponibilità finanziare (art. 14, l. n. 42/2009) derivanti dal regionalismo differenziato servono a ben poco se “contestualmente” le aree depresse non vengono aiutate (secondo il principio costituzionale di sussidiarietà) con adeguate risorse, volte a realizzare l’omogeneizzazione della qualità dei servizi sociali (L.E.P.) nelle diverse aree territoriali del Paese. I profili finanziari sono, infatti, la nota dolente di una buona, dunque non iniqua, differenziazione: servono “più” risorse per le aree avanzate, ma anche “più” risorse per le aree depresse del Paese. Si tratta, dunque, di premiare il merito e favorire la competizione, senza però dimenticare solidarietà e condivisione.
La riforma presenta, purtroppo, contraddizioni genetiche, perché riguarda anche materie assolutamente “inconferenti” rispetto alla dimensione territoriale regionale (almeno: grandi reti di trasporto e di navigazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia; coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; norme generali sull’istruzione; tutela dell’ambiente).
In secondo luogo, l’art. 116, III C., Cost. deve fare i conti con “altri” vincoli costituzionali da rispettare:
- l’art. 117, II c., lett. m, e 120, II c., Cost. (i Livelli Essenziali delle Prestazioni: c.d. L.E.P.), concernenti i diritti civili e sociali i quali – non è male ricordarlo – sono previsti per “tutti” i cittadini e dunque «devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale», senza distinzione fra Nord e Sud;
- l’art. 119 (coesione sociale e solidarietà);
- l’art.5 (unità e indivisibilità), nonché l’art. 120 (unità giuridica ed economica della Repubblica).
In breve, è in gioco l’esistenza di minimo di welfare che ancora residua “per tutti” nel nostro Paese.
In questo contesto, è impensabile, per esempio, il regionalismo differenziato per una Regione come la Calabria, in parte inadeguata già a svolgere le semplici funzioni previste dalla riforma costituzionale del 2001 e da 9 anni addirittura commissariata proprio nella sanità (i 3/4 della spesa media regionale, che vede – solo nel 2017 – “trasferiti” dalla Regione al Nord ben 319 milioni di euro). Ma è anche impensabile la speculare richiesta del c.d. «residuo fiscale» da parte di Presidenti di Regioni del Nord (per es. L. Zaia, governatore del Veneto), secondo cui gli 8 o 9/10 del gettito fiscale prodotto nel territorio regionale dovrebbero restare in loco. Infatti, già ora le Regioni del Nord, più ricche e quindi con maggior gettito, gestiscono (e sempre più gestiranno) una maggiore spesa pubblica con minori imposizioni fiscali.
Fortunatamente la Corte (sentt. cost. nn.), è ben ferma nel ribadire l’impossibilità per le Regioni, anche speciali, di sottrarsi ai vincoli di perequazione e solidarietà nei confronti delle altre Regioni (cfr., da ultimo, sent. cost. nn. 155/2015, 69-83/2016, 103/2018 e 77/2019), sottolineando che devono esistere «legami di solidarietà tra la popolazione regionale e il resto della Repubblica» (sent. cost. n. 118/2015)
Il regionalismo differenziato può funzionare solo se:
- viene limitato a poche Regioni – quelle effettivamente in grado di svolgere, con chiara efficienza amministrativa e vantaggio per tutti, «funzioni ulteriori» – pena la violazione della Costituzione che prevede le Regioni a Statuto ordinario (regola) e solo occasionalmente Regioni differenziate (eccezione);
- riguardi necessariamente, per ogni Regione interessata, non “tutte” le materie in teoria previste dalla Costituzione (art. 116, III c., nella sua formulazione sciaguratamente generica), ma solo quelle che realmente sarebbero meglio gestite a livello regionale, caso per caso (mentre la richiesta, rispettivamente da parte di Veneto e Lombardia, pare sia di 23 e 20 materie);
- il legislatore statale definisca bene prima i LEP e i c.d. “fabbisogni standard” (al momento non sempre definiti): differenziazione non significa “asimmetria” nei diritti;
- si attui pienamente l’art. 118 Cost. Ciò significa l’approvazione di una «riforma organica» che modifichi contestualmente e armonicamente, se e quando necessario anche accorpandole, almeno 3 normative:
e1) quella sugli Enti Locali (TUEL 267/2000), che precede la novella cost. del 2001;
e2) l’equivoca legge n. 42/2009 sul federalismo fiscale;
e3) la legge n. 56/2014. c.d. Delrio, rimasta in sospeso per la mancata abolizione delle Province.
Insomma, per dirla con De Gaulle, un vaste programme, senza che però al momento si veda una maggioranza politica omogena e determinata per perseguirlo.
Non può escludersi, quindi, che l’evoluzione del regionalismo italiano possa degenerare in involuzione: dal regionalismo “garantista” dei primi tempi (in cui Stato e Regioni restavano rigidamente separati), al regionalismo “cooperativo” (invocato prima dalla giurisprudenza costituzionale e poi recepito nella riforma del Tit. V del 2001), fino al successivo regionalismo “differenziato” o “asimmetrico”, il quale – se non ben regolato – rischia di trasformarsi quasi subito brutalmente in regionalismo “competitivo”.