Anche se mio padre viveva a Torino da quarant’anni, se viaggiava in tutto il mondo con il suo lavoro di stilista/inventore, verso la fine d’aprile di ogni anno, sentiva l’impulso irrefrenabile di chiamare
qualche parente al paese per rivolgergli la fatidica domanda: “‘Ncignaru i favi?”. A tale scopo una volta chiamò una cugina di Palermiti addirittura da Taiwan. Al paese rimanevano stupiti e scherzavano sulla sua originalità, ma a ben vedere, più si trovava lontano dalle rotte note, in contesti culturalmente differenti, più il quesito sull’inizio del tempo delle fave diventava necessario, acquistava valore, assumendo il senso di una rassicurazione. Potremmo tradurre la domanda in “è tutto a posto?”, “il tempo fa il suo corso?”, “le stagioni danno i loro frutti e la primavera è arrivata?”, “il mondo è ancora intero?”.
Certo lui pregustava il sapore della primizia dolceamara della sua infanzia che apriva la bella stagione, cucinata con code di cipolla, olio verde d’oliva e peperoncino. Ma quella domanda aveva anche la sacra funzione di riconnettere il paesano alla terra che aveva lasciato, a una delle cose preziose che aveva perso trasferendosi a Nord: lo stretto legame con la ciclicità della natura, che accompagna e dà senso alla ciclicità della vita.
A Roma, Milano, Parigi, o nei nostri supermercati della grande distribuzione, dove puoi trovare fragole, pomodori, melanzane, fave, ma anche manghi, papaie e ananas tutto l’anno, questa domanda del tempo delle fave non ha più senso di esistere. Ma ciò che può sembrare un vantaggio per soddisfare in ogni stagione i capricci gastronomici di ognuno, porta con sé una questione problematica, responsabile di quello scollamento che mio padre voleva esorcizzare. Non è cosa da poco sentirsi collegati ai ritmi della natura, ai suoi profumi, sapori, a luce e oscurità, all’eterno ciclo delle stagioni fatto di nascita-morte-rinascita. Si tratta di sentirsi parte di un tutto, di dare senso all’esistenza, di partecipare al flusso, di maturare quel senso di appartenenza che è l’antidoto contro alienazione e solitudine.
A questa pericolante e salvifica ciclicità, al desiderio di ridarle il ruolo che le compete, alla celebrazione dell’impermanenza e della bellezza che, così come nasce, sfiorisce, si ispira anche l’evento “Girasuli”. Una piccola grande idea messa in pratica con gusto dai ragazzi dell’Associazione Il Sotterraneo di Gasperina, nel catanzarese, insieme alla famiglia Catrambone, proprietaria dell’appezzamento dal quale si tuffa lo sguardo su Montepaone e Soverato.
Un campo di girasoli, dunque, che dai cinquecento metri si affaccia sullo Ionio, centinaia e centinaia di fiori alti più di un metro che, tutti insieme, allungano il collo e sporgono la faccia gialla verso il blu. Campo che i ragazzi di Gasperina hanno trasformato in visione, scenario fantastico, set fotocinematografico, percorso esperienziale, sogno, via floris con le sue fantasiose stazioni. Visione da fissare in immagini, seduti su una poltrona-trono in mezzo ai girasoli, in bicicletta nel campo, sdraiati sotto un tetto di stoffe, riflessi nell’antica specchiera con un campionario di cappelli a disposizione, affacciati alla cornice-finestra rossa, con appunti di viaggio da annotare lungo il percorso, a partire dall’imperativo categorico scritto su uno specchio all’inizio dell’itinerario: “Fiorisci dove sei!”.
Centinaia di persone ogni sera vengono qui ad abbeverarsi di bellezza. Pienone da tutto esaurito, ci dice Maria Antonietta tra gli ideatori dell’iniziativa, mentre la figlia si sdoppia tra una carezza alla capretta e le corse a perdifiato. Per chi vuole sedersi su balle di fieno attorno a un tavolo in mezzo al campo, c’è anche un aperitivo servito in una cassetta foderata da un panno di lino da corredo: provola, pecorino, taralli, olive, soppressata, capicollo, vino. Il tutto dalle 18 e 30 alle 20 e 30, cioè quando quello che era un fondo agricolo diventa meraviglia, quando girasoli, scritte, balle di fieno, bandierine colorate, nastri volanti, pecore che tornano dal pascolo, cibi, poltrone e astanti galleggiano tutti insieme nella luce arancio-oro cara agli dèi.
E proprio da un mito greco abbiamo informazioni sul fiore Helianthus, latinizzazione dei due termini greci ἥλιος sole e ἄνθος fiore, anche chiamato Heliotropio, rivolto al sole, per quel fenomeno che durante la fioritura permette alle corolle di orientarsi al disco solare, mentre, a fioritura raggiunta, il fiore si blocca nella direzione in cui esso sorge.
Ci racconta Ovidio nelle Metamorfosi che Heliotropio non sarebbe altri che la ninfa Clizia, così innamorata del dio del sole Apollo da seguire continuamente con lo sguardo gli spostamenti del suo carro infuocato nel cielo, tanto da essere trasformata in girasole. Coltivato fin dal 1000 a.C. nel ricco regno del Perù, anche per gli Incas era una manifestazione tangibile del dio del sole, e fu portato in Europa, sottoforma di riproduzione in oro, ma anche di semi, nel XVI secolo.
Per la scienza è il fiore principe della sequenza di Fibonacci con la perfezione formale e numerica delle sue spirali di semi, per un uso ottimale dello spazio, che assicura la crescita del massimo numero di sementi sulla sua testa tonda. Un fiore che pare proprio un piccolo sole nella forma e nelle tinte, tanto da essere sempre relazionato, anche in culture lontane, alla luce, alla gioia, alla letizia, alla vita, a longevità e fortuna.
Anche a resistenza e speranza, come vuole il “movimento del girasole”, nato in Ucraina il 24 febbraio 2022, giorno dell’invasione russa, ispirato da un video che ha fatto il giro del mondo nel quale una madre ucraina mette semi di girasole nella tasca di un soldato russo dicendogli: “cresceranno girasoli quando morirai".
La promessa di un ritorno alla vita, ecco cosa sono questi fiori di sole e d’oro. Come testimonia il loro persistente orientamento ad est dalla fine della fioritura alla morte, nella promessa di una nuova alba, di una rinascita. Qualcosa che ispirò molti artisti come il poeta Eugenio Montale che scrisse:
Portami il girasole ch’io lo trapianti
nel mio terreno bruciato dal salino
(…)
Portami tu la pianta che conduce
dove sorgono bionde trasparenze
e vapora la vita quale essenza;
portami il girasole impazzito di luce.
Anche il maestro visionario di tutti i girasoli, Vincent Van Gogh, restò catturato da questi fiori tanto speciali e con le sue corpose pennellate esplorò alacremente i loro segreti: «Sto lavorando ai girasoli ogni mattina, dall'alba in avanti, - scrisse al fratello Theo nel 1988 - in quanto questi fiori si avvizziscono così rapidamente».
Il bene effimero della bellezza, ecco cosa ci hanno regalato ragazze e ragazzi di Gasperina, con questo evento che dura poco più di una settimana, il tempo della fioritura. Poi tutti a guardare ad est, in attesa di chiederci “E’ arrivato il tempo dei girasoli?”.